Senza te

 

Angusto era l’androne del palazzo fine Ottocento. I quattro vigili del fuoco salirono lenti i gradini logori di una scala elicoidale che ruotava intorno alla cabina dell’ascensore, protetta da una griglia polverosa e grigia. Al terzo piano, li stava aspettando una signora, probabilmente la stessa che aveva telefonato. I suoi occhi erano sbarrati e teneva le mani incrociate sulla bocca e sul naso. Quando il primo della fila le si avvicinò, protese il collo in avanti e indicò la porta con un cenno del capo.

I vigili suonarono il campanello accanto a una targa in ottone, imbrunito dalla trascuratezza, dove era stato inciso: Cav. Manlio Guarino.

Si udì qualche passo trascinato e anche l’impalpabile rumore dello spioncino aprirsi, ma la porta restò chiusa. Si guardarono tra loro, indossarono le maschere e suonarono un’altra volta e un’altra ancora. Nessuna risposta. Sfondarono il portoncino e si diressero fino alla grande cucina da dove proveniva una voce materna, anche se non più giovane. Il tavolo era apparecchiato per due. La signora aveva quasi finito di mangiare, mentre la pietanza dell’altro posto appariva intatta. Non parve essersi accorta della loro invasione e continuava a parlare con l’uomo accanto a lei, seduto su una poltroncina di legno. Una fune sottile lo teneva bloccato e aveva la testa canuta reclinata sul petto.

«Sei stanco, vero? Ora i signori se ne vanno, non temere», disse la donna. Poi, iniziò a sventolare il tovagliolo per cacciare un paio di mosche verso la finestra spalancata. «Nessuno ti darà fastidio, te lo prometto», disse accarezzandolo con tenerezza. Poi si rivolse agli uomini, anche se con lo sguardo nel vuoto, chinò il capo di lato fino a toccare la spalla e assunse un atteggiamento dolce e infantile. «Mio marito è molto stanco, non vedete? Ve ne andate, per favore, che ora deve riposarsi?»

«Sì, signora, ma prima l’aiutiamo», disse il più giovane dei quattro, avvicinatosi a lei per distrarla e allontanarla. «Venga con me, che a suo marito ci pensiamo noi.»

«Non mi tocchi!», urlò ritraendosi con uno scatto violento, balzando in piedi.

Nel frattempo, gli altri tre si erano avvicinati al vecchio. Il volto era gonfio ed era cereo come pure le mani.

 «Secondo me, sono passati almeno tre giorni», disse uno di loro alzandogli il capo.

Il ragazzo vicino alla signora, udite quelle parole, si girò d’istinto per guardare, ma alla vista di quegli occhi ancora aperti, che apparivano sbiaditi, evaporati, cerchiati di un alone nero, ebbe un conato di vomito.

 Si svolse tutto in un istante. L’anziana signora, salita su uno sgabello, fece il segno della croce e mormorò: «La luce si dissipa e le tenebre avanzano. Non posso vivere senza di te, Manlio».

 

L’ultimo sforzo per protrarsi verso la finestra e, sotto lo sguardo attonito del giovane, scomparve.

 

Emma Saponaro

scrittrice

 

Dipendo da te

 

Odio il vento in faccia. Non correre, idiota!

Olga fa tutto il contrario di ciò che dovrebbe.

Ester, guarda che bel vestito.

Il vestito? Ma le hai viste le rose all’entrata del parco? E gli effluvi della lavanda che abbiamo sfiorato, dì, li hai percepiti?

Noia. Costrizione.

I ricordi, eccoli che tornano. Mi trascinano con dolcezza nel passato. Alcuni non li riconosco fin da subito; avvolti da un alone di estraneità che man mano si dissolve, e mi si conficcano nel cuore.

A volte ne sento anche l’odore, sembra una magia.

Odore di gesso, di scuola, la scuola d’una volta.

Odore della colonia della nonna, dei biscotti della zia, odore di treno.

L’odore della domenica. Sì, la domenica aveva un odore suo: di arrosto, di bagnoschiuma, di cera sui pavimenti, di lucido da scarpe, di incenso in chiesa e di sala fumosa del cinema.

E poi l’odore del mio primo bacio, e il ricordo del suo sapore, che mi caricano di nostalgia e mi rigano le guance, perché di baci non ce ne furono più.

Vorrei correre, cantare, urlare, litigare. Vorrei disperarmi, e gioire. Mi manca tutto, solo ricordi mi restano.

Perché m’ignori, e mi parli di vestiti? Prova a metterti al mio posto.

Bella camminata, vero Ester?

Camminata? Sono paralizzata, idiota, e “cammino” trascinata su questa dannata carrozzina da una sconosciuta come te che è pagata per farlo.

Tu non sei nulla per me. Ma non ho scelta, sono nulla anch’io!

Respiro, aspettando con brama quel giorno in cui non avrò più memoria.

E troverò finalmente la pace.

 

Emma Saponaro

 

 dall’antologia “Camminando con…” promosso da Parole per strada, edizione 2012.

 

Lo specchio del tempo

 

di Emma Saponaro

 

Aspettiamo che ritorni la luce di sentire una voce

 

aspettiamo senza avere paura, domani.

 

(Lucio Dalla, Futura)

 

 

Quasi tutti pensavano che l’uomo e il ragazzo fossero padre e figlio, probabilmente per la straordinaria somiglianza che li univa.

Era una fredda mattina di febbraio. Il cielo era terso e il sole diffondeva un piacevole calore. Seduti in un bar dell’aeroporto, parlavano uno di fronte all’altro sorseggiando caffè. In quel momento la radio stava trasmettendo la voce graffiante di Lucio Dalla che cantava Futura. Nessun’altra colonna sonora sarebbe stata più adatta a quella situazione.

– Non devi partire, dammi retta. – Disse l’uomo, rivolgendosi al ragazzo con tono persuasivo.

– Io devo partire. In Giappone farò carriera. – Obiettò il ragazzo, ma, non ricevendo risposta e dopo un momento di esitazione, continuò: – Ammesso che io ti creda, cosa dovrei fare?

– Non devi partire e basta.

– Ma perché?

– Perché la perderai definitivamente, e non te lo perdonerai mai. Nessuna donna che incontrerai sarà come Matilde. Maledirai questo giorno, credimi.

– Follia! Questa è pura follia. – Sussurrò il ragazzo, voltando lentamente il capo da una parte all’altra, con espressione tetra e inebetita allo stesso tempo.

– Voglio sapere di più!

– Lei si ammalerà. Sposerà, pur non amandolo, un tipo insulso che le offrirà una sicurezza economica. Matilde, schiacciata dalla solitudine, si farà convincere, non foss’altro per non far crescere sua figlia senza un padre.

– Hai detto “sua figlia”?

– Te lo ha detto che è incinta, giusto?

Improvvisamente, il ragazzo fu pervaso da un tremore che aumentò il disagio. Respirava a fatica e, con un gesto rapido, si tolse la sciarpa che gli dava la sensazione di soffocamento. Era stupito, ancora incredulo, ma anche curioso, spaventato. Finalmente il coraggio arrivò e riprese il dialogo:

 – Sì, me lo ha detto, ma ha aggiunto che il momento è sbagliato e non ha intenzione di portare avanti la gravidanza.

– Balle!

– Scusami, non mi sento molto bene. – Si lamentò il ragazzo, dopo aver bevuto un bicchiere d’acqua tutto d’un fiato.

– So che è difficile, ma ora devi credermi. Ascolta, Matilde ti ha detto così solo per paura che ti sentissi intrappolato. Sa benissimo quanto tu tenga a questa dannata carriera, che un giorno maledirai per averti fatto perdere tutto, tutta la tua vita. E poi, ciò che ti ha detto Matilde voleva essere una specie di test.

– Test?

– Sì, per vedere come avresti reagito, e invece tu cosa hai fatto? Hai detto che aveva ragione e che non avresti voluto rinunciare alla tua promozione. Coglione!

– Vero, esattamente questo, ma…

– Niente ma. Ora spero che tu sia convinto di come stanno realmente le cose.

Il ragazzo continuava ad avvertire capogiri e ora anche un leggero senso di nausea. Aveva la sensazione di vivere in un sogno, ma questo non gli tolse la forza di continuare a parlare.

– Dimmi di più. Cosa succederà?

– Non voglio farti del male.

– Voglio saperlo, per Dio! – Urlò, sbattendo un pugno sul tavolo e attirando l’attenzione dei presenti.

– Ok, ti dirò tutto. Non resisterà. La depressione prenderà il sopravvento e la spingerà al suicidio. Si getterà dal quinto piano della sua abitazione. Cadrà sul tetto della Volvo di suo marito, non morirà subito ma non farà in tempo ad arrivare all’ospedale.

– E la bambina?

– Lei, la piccola Aurora, avrà solo due anni quando la mamma morirà. Il marito è un noto chirurgo e, contrariamente a quanto voleva far credere a Matilde, non gli piacciono i bambini, così la scaricherà ai suoi genitori, due notai tutti d’un pezzo che non sapranno dimostrare affetto alla dolce Aurora. Lei fuggirà dai nonni e se la caverà lo stesso: si laureerà in economia con il massimo dei voti, diventando broker a Londra.

– Santo cielo! – Il ragazzo si accasciò sul tavolo, poggiando la testa sul braccio. Le emozioni che percepiva erano intense, troppo, e lo annichilirono fino a trascinarlo in un pianto disperato che servì a liberarlo dalla tensione che aveva fin lì accumulato. Lentamente cominciò a intravedere una luce, una speranza, una via d’uscita e chiese all’uomo: – Ma tu…?

– Io cosa?

– Come hai vissuto in tutti questi anni?

L’uomo ordinò un cognac, che bevve in un sol sorso. Ingurgitare tutto d’un fiato significava bruciare e cancellare ciò che era stato e che poteva essere diverso.

– Non ho vissuto, mi sono lasciato trascinare dalla vita. Purtroppo, o per fortuna, non ho avuto il coraggio che ha avuto Matilde, ma sapessi quante volte ho pensato di porre fine alla mia sofferenza. Ho conosciuto donne, tante, belle, intelligenti. Non ho mai dormito con nessuna. Pensavo solo a lei. Sono trent’anni che penso a lei e che maledico quel giorno.

– Dov’è? – Chiese il ragazzo, acquistata la giusta lucidità per reagire.

– Se non ricordo male, oggi ha un’udienza, ma per il pranzo è libera.

Il ragazzo si alzò di scatto e andò via di corsa, dimenticando la sciarpa sul tavolino.

Arrivò in taxi davanti al tribunale, e lì aspettò trepidante Matilde per un’ora e mezza, non distogliendo mai lo sguardo da quel portone angusto, fino a quando la vide uscire. Indossava un cappotto doppiopetto, lungo e nero, che a lui piaceva tanto. Lei si voltò come se avesse sentito un richiamo e lo vide. Dapprima i loro sguardi si incrociarono, rimanendo così per lungo tempo, fino a quando anche i loro corpi ebbero modo di incontrarsi.

– Sono stato uno stupido. Lasciarti per la carriera!

Matilde non rispose. Aveva gli occhi inumiditi dall’emozione inaspettata. Ma nel suo sguardo si leggeva tutta la felicità che stava provando, per un amore che pensava perduto per sempre.

– E, naturalmente, la frugoletta la terremo, no?

– Che ne sai che sarà una femmina? – Domandò Matilde divertita.

– Lo so e basta.

– Sai anche come si chiama?

– Sì, la chiameremo Aurora, e sarà bella come la mamma.

Era tutto deciso. Era riuscito a cambiare il corso della sua vita e a dargli un senso. Tutto questo per merito di sé stesso. Sarebbe stato un segreto che non avrebbe mai potuto svelare a Matilde: il segreto di un incontro con sé stesso più vecchio di trent’anni.